lunedì 25 gennaio 2016

"Il volo di Sara" di Lorenza Farina e Sonia MariaLuce Possentini, Edizioni Fatatrac


Il Volo di Sara”, con i testi poetici di Lorenza Farina - bibliotecaria di mestiere, autrice per passione - e le delicate illustrazioni di Sonia MariaLuce Possentini, edito da Fatatrac, è un albo che riesce a parlare con tatto ai bambini di un argomento molto difficile e doloroso, quello dell'Olocausto. Qui e qui i link al blog della casa editrice con post dedicati.

Il punto di vista è molto interessante e insieme simbolico. Infatti, la storia viene raccontata da un pettirosso, un passeriforme che con il suo canto con trilli e gorgheggi, è presente in inverno in Europa. Questo piccolo batuffolo, che spicca nella neve, osserva da lontano quello che succede in un campo di concentramento. Il suo petto colorato e gonfio, la sua piuma rossa che svolazza nel cielo bianco e qualche bacca sui rami quasi spogli degli alberi si stagliano nel grigiore dei reticoli del filo spinato che circondano le baracche grigie e in cui vagano uomini scheletrici, tra fango e sudiciume. Intorno l'odore è acre e pungente, talmente nauseabondo da non riuscire a essere portato via dal vento.

La “monotonia” viene presto interrotta dall'arrivo di un treno (bellissima l'inquadratura, l'osservatore viene quasi travolto dalla locomotiva che ha una sbarra rossa, unica traccia colorata della pagina), non un treno qualsiasi, ma un carro bestiame, sprangato.
Un cartello con due scritte e con un teschio ci indica che il posto non è accogliente.
Infatti, all'arrivo, il rumore assordante e lo stridio del velivolo in frenata si accompagnano alle grida concitate dei soldati accompagnate dai latrati dei cani al guinzaglio.

Dai vagoni scendono donne, anziani bambini. Tutti volti scuri, dalle facce quasi irriconoscibili. Spicca solo la spilla di Davide, il marchio scelto per riconoscere gli ebrei dagli ariani.


L'incontro

Fu allora che la scorsi
Il pettirosso viene colpito dagli occhi grandi di una bambina dai capelli scuri raccolti in un nastro azzurro come il maglione.

L'intesa è reciproca.

 “Ad un tratto la bambina sollevò lo sguardo e mi vide «Mamma, guarda un pettirosso» mormorò, sorridendo appena”.

Ma non c'è tempo per la meraviglia perché Sara - così si chiama la protagonista, che in ebraico significa “principessa” - viene strattonata e allontanata dalla mamma, che non vedrà più.

Il pettirosso sceglie, allora, di vegliare su di lei, di farle compagnia e darle quelle attenzioni e la cura necessarie a una bambina di quella età rimasta, di fatto, "orfana".
E decide di essere la sua voce. Parlare per lei. Parlare anche per i suoi occhi.


Il racconto si dipana mostrando cosa succede ai bambini, attraverso i dettagli: "le fecero togliere il vestito azzurro che la mamma le aveva fatto con le sue mani. La costrinsero a indossare una casacca a righe, molto più grande della sua taglia, con una stella gialla cucita sul petto.
Poi le tagliarono i bei capelli scuri, che scivolavano come piume sul pavimento insieme al nastro azzurro che li tratteneva. 

La fecero coricare in una cuccetta, ammassata insieme ad altri bambini infreddoliti e impauriti come lei".

La potenza delle parole - bellissima l'immagine dei capelli che cadono come piume, la simbiosi tra i due è unica - è accompagnata da quella delle immagini, in cui risalta in primo piano il nastro azzurro, unico elemento di colore e di spicco tra i volti grigi ovattati dei bambini pelati.
In volo verso la libertà
Il pettirosso va a trovare Sara la notte - il momento in cui il terrore aumenta e si ha bisogno di una coccola, di una carezza, di dolci parole - le accarezza il viso con le piume, cinguettandole racconti fino a farla addormentare.

Di giorno, invece, le raccoglie il cibo che trova quà e là, anche se la scopre sempre più magra e deperita, spaesata nella neve, a piedi nudi in mezzo al gelo.

Ma una mattina l'uccello non la trova più nella baracca, ma in fila insieme a molti altri bambini e si accorge del fumo che esce dai forni (Sara aveva sei/sette anni e il suo destino era segnato).


La bambina lo nota e gli sorride, anche se il suo sorriso è stanco.

"Poi ondeggiò con estrema lentezza le braccia esili, come se stesse per spiccare il volo"

Ed è così che il pettirosso decide di “prestarle” le sue ali per fuggire via.

"La vidi vibrarsi nel cielo non più grigio ma azzurro come il vestito che ora indossava, come il nastro che ora le cingeva i capelli".

Un finale poetico, denso di speranza e libertà.

Un uccello preso a esempio come simbolo della libertà.  Chissà se le due autrici hanno deciso di scegliere il pettirosso per un motivo preciso. Ci sono diverse leggende riguardo a questo volatile. Inoltre in inverno il suo canto, che è una vera e propria melodia, reca allegria anche nelle giornate senza sole e fredde. Chissà, se per le sue penne arruffate che trattengono calore e il suo petto dai colori caldi, che contrastano a perfezione con il grigiore e la ruvidezza del filo spinato e del paesaggio circostante.
L'albo inizia con una poesia “La canzone dell'uccello” (1941) tratto da “La Shoah dei bambini: poesia e disegni da Theresienstadt”, Udine, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione.

Un albo davvero portentoso, sia per il testo sia per le immagini, in cui i dettagli colorati si stagliano nel grigiore delle tenebre, del buio, dell'abisso. Il grigio e il nero che raccontano l'orrore, pur nella loro poesia e delicatezza.

Le immagini, le inquadrature hanno un forte richiamo alla fotografia, ai famosi "punti di forza" che catturano lo sguardo dell'osservatore, mettendo ancora più in risalto i dettagli e sono capaci di far emozionare tanto.

Un albo da leggere insieme ai bambini, perché loro sono vicini alla poesia, e per affrontare con loro il tema delle crudeltà, non solo quella avvenuta nei campi di concentramento, ma anche quella perpetrataai giorni nostri a cui spesso, forse, non prestiamo la giusta attenzione.

Un albo per riflettere, che ci dona a speranza, la speranza che qualcosa di bello e poetico possa sempre accadere, anche in mezzo alle brutture del mondo.

Tornando a uno dei due link sul blog di Fatatrac (citati a inizio del post), mi hanno colpito particolarmente queste frasi, che faccio mie nei contenuti, pur non essendone l'autrice
"Sarà che anno dopo anno, nuovamente, tanti ne parlano, lo leggono, ci inviano messaggi.

Sarà che le fotografie di presentazioni, disegni dei bambini, lettere arrivano via FaceBook, via twitter, via mail.
 
Saranno tutte queste cose, e molte altre, che si consolida sempre di più la convinzione che l'esercizio della memoria andrebbe dilatato a tutto l'anno e non contingentato al puro ambito scolastico e che i bambini, a questo, sarebbero prontissimi.
Andrebbe condiviso in tutti gli ambiti frequentati dai bambini questa attitudine al ricordo, mediato dalla narrazione. Il suggerimento è di leggere questo, e libri come questo, tutto l'anno a scuola e nelle famiglie.
"

venerdì 22 gennaio 2016

"Fino a quando la mia stella brillerà": Daniela Palumbo incontra in Feltrinelli i ragazzi delle medie


Il 27 gennaio di ogni anno si celebra "Il giorno della memoria", ricorrenza internazionale per non dimenticare le vittime dell'Olocausto (il 27 gennaio 1945 sono stati abbattuti i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia), ma gli appuntamenti e le letture sul tema della Shoah sono iniziati in questi giorni. Il 19 gennaio scorso ho avuto la fortuna di ascoltare alla Feltrinelli di piazza Piemonte, a Milano, l'incontro di due classi della scuola secondaria di primo grado con la giornalista e scrittrice Daniela Palumbo, che ha raccolto la testimonianza di Liliana Segre nel libro "Fino a quando la mia stella brillerà", edito da Piemme nella collana Il Battello a Vapore.

Una questione di empatia
Per introdurre alcuni temi del libro, Daniela Palumbo ha esordito parlando del neonato Museo dell'empatia (qui il link), un progetto itinerante - ora in Australia e che dovrebbe, si spera, approdare anche a Milano - in cui si mette in risalto la necessità di coltivare l'empatia. In parte connessa al patrimonio genetico di ciascuno, questa capacità di mettersi nei panni dell'altro sta precipitosamente calando nelle nuove generazioni, come ha sottolineato anche il presidente americano Obama (qui e qui approfondimenti). A conferma, uno studio di Peter Grey psicologo e ricercatore del Boston College (qui), che rivela che i giovani d'oggi soffrono di narcisismo, ovvero pensano più a se stessi che agli altri.
Roman Krznaric, scrittore esperto internazionale di empatia e fondatore del Museo, ha pensato al progetto denominato "A Myle in my shoe": le persone sono invitate a scegliere un paio di scarpe, indossarle e percorrere un miglio sul Tamigi (in questo caso, visto che è nato a Londra) ascoltando la storia del proprietario di quelle scarpe (che può essere un barbone, una prostituta, una ragazzina, un banchiere e così via). Questo "gioco" invita ad ascoltare e, in qualche modo, a "mettersi nei panni di quella persona". In effetti, esiste un detto inglese da cui è nato tutto che dice "Prima di giudicare una persona cammina per un miglio nelle sue scarpe". Detto fatto.
Perché è così importante parlare di empatia? Perché il suo contrario è l'indifferenza.


"L'indifferenza fa male. È l'arma peggiore. La più potente.
Perché se qualcuno ti affronta e ti vuole fare del male puoi difenderti
.
Ma se intorno a te c'è silenzio, come fai a difenderti?

...
Era come se all'improvviso io potessi vedere gli altri
ma gli altri non vedessero me.
 È stato come se da un momento all'altro
il mondo non mi avesse più guardata,
come se non si fosse voltato a vedere
quello che accadeva a noi bambini ebrei"
Finché la mia stella brillerà


L'indifferenza
Quando a Milano è stato costruito il Memoriale della Shoah (qui il link), attorno al "Binario 21" luogo simbolo dove avvenivano le deportazioni, il 26 gennaio 2012 è stata posata la prima targa "in memoria del convoglio del 30 gennaio 1944 Milano–Auschwitz, col quale, tra gli altri, è stata deportata anche Liliana Segre" (qui l'approfondimento sullo stato dei lavori e qui l'articolo dedicato da Radiomamma, a cura di Cristina Colli, che è andata a visitare il luogo e lo spiega alle famiglie).
Quando è stato domandato a Liliana Segre quale parola indicare sul muro che è stato eretto, lei ha chiesto che venisse scritta la parola "indifferenza", forse quello che "le ha fatto più male" come ha raccontato Daniela Palumbo. Chi soffre riesce a capire meglio di altri la sofferenza delle persone. Ed è proprio quello che ha ricordato la Segre: quando sono stati spostati dal carcere di San Vittore per essere trasportati sui camion, gli unici che hanno lanciato loro le arance sono stati proprio i detenuti, le uniche persone capaci di mostrare un segno di affetto e comprensione.

"Attraversammo il carcere in silenzio per arrivare al cortile dove ci aspettavano i camion. A un tratto un coro di voci ci investì: erano i detenuti comuni, quelli che, a differenza di noi ebrei, erano in carcere perché avevano commesso dei reati. Si sporgevano dai ballatoi degli altri raggi della prigione gridandoci parole di incoraggiamento e solidarietà, qualcuno lasciava cadere una mela, un'arancia. Furono gli unici che sentimmo vicino a noi, come fratelli, furono magnifici.
Finché la mia stella brillerà


La prima domanda nel gruppo di ragazzi della terza media Levi di Baggio è arrivata da Silvia (che anche in seguito si è mostrata molto vivace e perspicace, ponendo sempre domande sottili e di grande riflessione) "come posso entrare nei panni di quella persona se non ho mai vissuto quella esperienza terribile? come faccio a mettermi nei suoi panni?".
Daniela le ha risposto facendo l'esempio di come ci si comporta con un'amica. Quando la si conosce, si capisce quando non sta bene e, allora, bastano anche solo una parola, un gesto di affetto per mostrare l'interesse nei suoi confronti. Non è che per forza bisogna vivere tutto quello che prova un altra persona per provare empatia. Basta un atto di vicinanza alla persona che ha un periodo difficile. Quello che le succede in qualche modo ti riguarda.

Un caso che ci riguarda da vicino è quello degli sbarchi dei migranti o dei rifugiati. Come ci poniamo osservandoli? Purtroppo - ha continuato Daniela - i nostro stile di vita ci mette in competizione gli uni con gli altri, sul metrò non ti accorgi delle persone che ti stanno accanto, così come siamo presi a organizzare la nostra vita, a correre. Ecco, l'inventore del Museo dell'empatia ci dice che questa è un antidoto alla vita moderna, ti consente di attivare un circuito positivo per cui inizi a porti le domande "chi mi sta accanto? come sta? chi è veramente?". Sono piccoli semi che possono dare anche grandi frutti e contribuire a far cambiare il modo di pensare delle persone.

Settant'anni fa un confine è stato superato nei confronti degli esseri umani, non solo ebrei. Lo dicono gli storici. La Shoah ha superato i confini dell'immaginazione. Quando arrivavi nei campi di concentramento eri uno stück.
"Stück... ci chiamavano così, facendo seguire a questa parola i numeri tatuati sul braccio. In tedesco significa "pezzo". Non eravamo più uomini. Ad Auschwitz diventammo... pezzi."

Daniela prosegue spiegando che si trattava proprio di una sottrazione di umanità. Andavi avanti fino a quando avevi le forze (i nazisti avevano calcolato a tavolino una resistenza media di 3 mesi). La perdita di umanità non era solo da parte dei tedeschi che gestivano il campo ma si sviluppava anche nei prigionieri. I sopravvissuti cercavano di non partecipare alle sofferenze.

Racconta Liliana Segre nel libro "Successe una cosa dentro di me senza che me ne rendessi conto: a un certo punto la mia mente cominciò a rifiutare di partecipare alle cose terribili che succedevano nel campo. Non mi voltavo quando qualcuna di noi era messa in punizione, non ascoltavo quando le prigioniere parlavano di violenze a cui avevano assistito o alle quali erano state sottoposte ... Io non volevo sapere. Non lasciavo il mio cervello libero di registrare quello che stava accadendo intorno a me. Se avessi partecipato con il cuore alle sofferenze spaventose che vedevo ogni giorno, se mi fossi affezionata a qualche prigioniera che avrei potuto veder morire da un giorno all'altro, non ce l'avrei fatta a sopportare quei giorni, uno dopo l'altro. Solo il mio corpo - con la mia magrezza, la fame, il freddo, le piaghe, le febbri, le punizioni che subivo - mi riportava nel campo, dentro Auschwitz. La mente no, la mente distoglieva lo sguardo, e io ricominciavo a fuggire. Senza vedere, senza sentire le grida di giorno e di notte. Avanti, una gamba dopo l'altra, a testa bassa, senza guardare in faccia chi mi stava intorno."

È quello che è successo a Liliana con Janine  "Un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me."

Daniela prosegue raccontando ai ragazzi che non dovevi sfidare un nazista o il medico  - che faceva la selezione decidendo se "potevano andare avanti" o se mandarli nelle camere a gas - se ti facevi notare, se avevano idea che ti sentissi una persona, se lo percepivano, eri finita. Dovevi essere un vegetale.


Raccontare per non dimenticare
Per fortuna Liliana Segre - e nel libro è raccontato benissimo - aveva 14 anni e una gran voglia di vivere (istintiva). Ma quell'egoismo che ha dovuto sviluppare per sopravvivere l'ha pagato dopo. Ora ha 85 anni ed è stanca.
Daniela spiega che ha iniziato a raccontare dal 1990 per senso di colpa ("Pian piano, dentro di me, diventava pressante questa sensazione di non aver fatto il mio dovere. Il mio silenzio cominciò a pesarmi, era un macigno oppressivo") per rendere omaggio, per dire a tutti che le persone erano esistite (nella terza parte del libro si narra che verso la metà di gennaio 1945 i nazisti fecero saltare in aria il lager "Distruggendo il campo di Auschwitz volevano cancellare le prove di quello che era successo lì dentro. Il mondo non doveva sapere. Ma Auschwitz venne distrutto solo in parte, non trovarono il tempo di completare l'opera").

Liliana Segre ha raccontato spesso la sua storia. Ha scritto diversi libri.
Con questo libro ha voluto rendere omaggio al padre, che è stato per lei come "le vitamine", dandole la forza per sopravvivere.
L'incontro con Daniela è emozionante e Silvia si rifà viva con una riflessione "Lei si è quasi vergognata di essere rimasta viva.." Daniela ha raccontato che Primo Levi lo ripete spesso.

Silvia "Ma le direi che il suo non era un privilegio, ma piuttosto un diritto".
Daniela spiega che tutti i sopravvissuti a un campo di concentramento hanno un senso di colpa terribile e hanno dovuto affrontare anche una terapia psicologica per riuscire a conviverci. Ora Liliana sembra "pacificata", perché sa che in quel contesto non poteva fare altrimenti.
Ma se qualcuno le chiede se ha perdonato, lei risponde che non ce la fa. Ecco le sue parole nel libro.

"Liliana hai perdonato?
So che farei una bella figura dicendo che ho perdonato. Qualcuno mi ha detto che se perdonassi potrei mettermi il cuore in pace. Non è così. Io non ho perdonato, non perdonerò mai a livello personale ...  Perdonare, per me, equivale a dimenticare. " (dialogo tra Daniela e Liliana)

Il dolore del racconto
Un'altra domanda sorge tra gli studenti "Cosa sentiva Liliana mentre raccontava la storia?". Daniela racconta che i colloqui con Liliana erano sempre di durata diversa -potevano durare da mezz'ora a otto ore- perché a un certo punto non ce la faceva più.
Allora Daniela le ha chiesto di spiegarle cosa avveniva dentro di lei. Liliana ha risposto di riuscire a raccontare bene fino a quando "vedeva le cose come un osservatore esterno", ma quando "tornava bambina" - ripensava alle sensazioni dolorose provate e a tutto quello che aveva visto - per lei il dolore aveva il sopravvento.
Daniela racconta che questa sofferenza si ripete ogni volta che Liliana racconta la sua storia. Ora la stanchezza è tanta.
Lia Gaffuri, docente della classe terza della Scuola secondaria di primo grado Levi di Baggio, chiede come sia nata l'idea del libro.
Daniela spiega che il libro è nato dall'Editore, che ci teneva ad avere un libro per ragazzi che raccontasse la storia dell'Olocausto. Poiché Daniela aveva già scritto il libro "Le valige di Auschwitz" (per cui ha preso anche un premio, e di cui parlerò in un post a parte), le è stato chiesto di incontrare Liliana Segre, dato che entrambe vivono a Milano. All'inizio Liliana era restia - anche perché ne aveva già parlato in altri libri - poi ha "ceduto" pensando di incentrare il racconto sulla figura del padre e riportarlo a una dimensione più intima. Liliana non aveva la madre, aveva un rapporto quasi "simbiotico" con il padre, che è sempre stato presente.
Daniela - emozionata - rivela che Liliana Segre è una donna con una grande forza e, al tempo stesso, una grande sensibilità, capace di mostrare un'eccezionale empatia verso le persone.

Il ritorno alla "normalità"
Sempre Lia Gaffuri sottolinea come sia importante che nel libro ci sia anche "il dopo", come abbia fatto a tornare non solo nella sua patria ma anche a rientrare nella vita quotidiana.
Daniela ha spiegato come Liliana una volta tornata a casa si sentisse sempre nel campo. Naturalmente, le privazioni subite e la mancanza di cibo, avevano suscitato in lei un grande desiderio di mangiare, fino a ingrassare.

"Mi guardavo nella mia nuova vita e vedevo una ragazza grassa, informe, che non riusciva ad adattarsi agli altri, e gli altri non riuscivano ad adattarsi a lei.
Gli zii non erano cattivi. Facevano del loro meglio. Pensavano di dovermi reinserire nella società. Stavano continuamente a riprendermi su come stavo seduta, mangiavo, dormivo, su cosa dicevo e come lo dicevo «Stai composta, saluta come si deve quando incontri qualcuno, non dire parolacce, taglia la mela con la forchetta e con il coltello».
Ma io pensavo che solo avere una mela era un dono straordinario, cosa mi importava di tagliarla con la forchetta e il coltello?
"

Daniela sottolinea come le persone intorno a Liliana non capissero. E lei si sentiva estranea a quella vita, a quel mondo che non le apparteneva più. Tutti le dicevano "riprendi la tua vita, le tue cose, la scuola, le tue regole". Lei aveva bisogno di raccontare e parlare. Capire quello che era accaduto. Questo non le è stato permesso.

Estraneità
Questa è un altra parola che hanno provato i sopravvissuti. Tutti non volevano sentire. Tutti non volevano sapere.

Alla domanda "Ma lei si è messa nei panni di Liliana?" Daniela ha risposto con un sì (al tempo stesso deciso ed emozionato). Ha accennato anche alle valigie, che l'hanno molto colpita quando ha visitato il campo di sterminio di Auschwitz, unico oggetto presente in cui c'erano un nome e un cognome. Lì ha capito che dietro c'era una persona. Le valigie, come le scarpe nell'esempio iniziale del museo dell'empatia, rappresentano un simbolo.

Questo libro è stato scritto con il contributo di Liliana Segre, sia perché è una delle poche persone sopravvissute allo sterminio, sia perché ha vissuto questa tragedia quando era una ragazzina e quindi riesce a coinvolgere meglio i ragazzi con la sua storia, raccontandola dal punto di vista di una quattordicenne.

I pensieri e le domande continuano a fluire spontanee. Daniela (una ragazzina di seconda) chiede il significato del timbro sul braccio.
La Palumbo spiega che, alla pari di essere "un pezzo" il numero contribuiva a togliere l'identità. Liliana Segre non ha mai voluto toglierselo, perché ha sempre pensato che non fosse una cosa per cui provare disagio, piuttosto una vergogna per i suoi carnefici.

Liliana Segre - nonostante tutto quello che ha vissuto - ha mantenuto una coscienza viva. Lo dimostra quando i soldati nazisti, presi dal panico per l'arrivo delle truppe alleate, iniziano a spogliarsi e nascondersi tra i deportati.

"Il comandante del lager di Malchow - un altro luogo in cui sono stati trascinati una volta venuti via da Auschwitz - un assassino privo di umanità, gettò anche lui la pistola e indossò abiti civili. La pistola cadde sui miei piedi. L'istinto fu di prenderla e sparare, per vendetta, per giustizia. Ma fu un attimo, mi vergognai di quel pensiero, io non ero come loro, non volevo diventare come i miei carnefici. ... Scelsi la vita, la loro cultura di morte non mi apparteneva e la lasciavo nel lager."



Il libro
Come ha spiegato Daniela Palumbo, sottolineandolo, il rapporto e il legame profondo con il papà - che fino all'ultimo ha voluto e tentato in ogni modo di proteggerla - viene fuori in quasi tutte le pagine del libro, un libro molto intenso, scritto benissimo, in cui si riesce a entrare nella storia, e che ti prende a tal punto da finirlo tutto d'un fiato. In particolare, si racconta anche la parte dell'infanzia felice che Liliana Segre ha potuto trascorrere, il rapporto con i nonni. Un padre che faceva anche le veci della madre, scomparsa quando lei era piccola, che non le ha fatto mancare niente per quello che le è stato possibile; che trascorreva le vacanze con lei sempre, appena poteva, cosa rara a quei tempi
.

"Fino a quando la mia stella brillerà", con la prefazione del giornalista Ferruccio de Bortoli, è un libro diviso in tre parti: Il papà e la bambina, in cui si racconta la vita felice e spensierata che ha potuto vivere Liliana Segre fino alle leggi razziali; Cambia tutto, in cui a partire dall'espulsione a scuola si parla della progressiva perdita di diritti - con due emozionanti capitoli, uno dedicato alla "nonna che offriva la torta ai fascisti" e l'altro dedicato ai "Giusti", quelle persone che hanno rischiato la loro vita per aiutare gli ebrei - e della fuga fino all'arresto, al carcere e al Binario 21; Sempre con me in cui si entra nel vivo della vita nel campo di concentramento e alla dolorosa separazione dal padre, il modo in cui Liliana è riuscita a sopravvivere - con il commovente capitolo "Stella stellina, resta con me" - fino alla marcia della morte, al ritorno a casa e il sentirsi diversa.
Il libro finisce con "L'incontro più bello" ovvero l'incontro con Alfredo, l'amore della sua vita, che seppe capirla da subito, e ascoltarla, anche perché aveva vissuto come lei la prigionia.
Infine, due capitoli molto pregnanti, sul perché Liliana abbia sentito il desiderio di parlare della sua dolorosa vicenda e il dialogo tra Daniela e Liliana.

Alcuni appuntamenti
Vorrei concludere questo post che mi ha proprio emozionato - e che vorrei fosse il primo di una serie di presentazioni di libri per ragazzi sulla Shoah - segnalandovi alcuni appuntamenti che potrebbero interessarvi, dedicati all'Olocausto.
Oggi 22 gennaio verrà inaugurata alla Biblioteca dei ragazzi di Rozzano "Per non dimenticare - In viaggio con Anna Frank", una mostra internazionale di mail art, qui).
Sabato 23 gennaio al Trotter una giornata per le famiglie.
La compagnia Alma Rosé propone "C'era un'orchesta ad Auschwitz", liberamente tratta da “Ad Auschwitz c’era una orchestra” di Fania Fénelon, con Annabella Di Costanzo ed Elena Lolli . Diversi sono gli appuntamenti in diversi luoghi, come si vede dalla locandina. Per informazioni: info@almarose.it e qui il link alla pagina facebook.


Infine, per chiudere il cerchio, il 27 gennaio alle 10.30 al Teatro degli Arcimboldi (qui e qui i  link alle notizie) Liliana Segre incontra i ragazzi; le scuole impossibilitate a partecipare potranno ascoltare in streaming sul sito del Corriere della Sera per commemorare insieme a lei il Giorno della Memoria. 
Con questo post partecipo al Venerdì del Libro ideato da Paola Miseti, alias HomeMadeMamma e il cui link odierno trovate qui.

giovedì 21 gennaio 2016

"Che bello, sono cresciuta!", il nuovo albo Babalibri di Carl Norac e Claude K. Dubois


Se avete amato Dolci parole e Le scatole della felicità, non potete perdervi questo nuovo albo Babalibri Che bello, sono cresciuta!, scritto da Carl Norac e illustrato da Claude K. Dubois, che ha come protagonista la cricetina Lola.
Entrambi, autori e illustratori, fanno una dedica a Lola. (Chissà chi sarà mai!)

Questa "recensione" sarà un po' speciale e diversa dal solito, perché ho letto il libro per la prima volta con Andrea (quasi cinque anni) e mi piace riportarvi anche le sue impressioni immediate.

Come tutti i cuccioli, Lola non vede l'ora di crescere in fretta e si è inventata un "gioco segreto", un rituale che si ripete ogni mattina e che la fa sentire felice. Davanti allo specchio salta, salta, salta...
(ieri quando lo leggevo mi veniva già da fare "zompi, zompi, zompi"o "doing dongi dong" - è un albo che si presta bene a una lettura molto animata con i più piccoli, e si divertono pure i grandi! - con lui che ha iniziato a rimbalzare sul letto
 e con una sorta di piccolo "mantra" continua a ripetere "Che bello, sono cresciuta! Che bello, sono cresciuta!".
Il mondo dei più piccoli è fatto non solo di grandi gioie ma anche delle prime delusioni e frustrazioni. Infatti, a scuola Lola viene presa in giro da Luca, che le dice in tono poco piacevole, deridendola, "Ehi, è arrivata la piccola Lola! Ti sei portata la tua piccola macchinina e la tua piccola bambolina?"
 e lei risponde infuriata
"Guarda che io gioco con i camion più alti di te, testa di rapa!"
Alla lettura di queste frasi Andrea (cinque anni) mi ha detto "Stanno litigando... Perché?"
Gli ho risposto che lui la sta prendendo in giro, chiedendogli se gli piace essere preso in giro. "Cattivo!" Ha risposto in tono risoluto e deciso, indicando con la mano Luca.

"E sai una cosa? Io posso crescere quando voglio."
"Si perché può sattare!!" ha commentato entusiasta Andrea (prendendo le parti di Lola, naturalmente!)
Il bulletto della scuola la minaccia di rubarle il suo sacchetto di biglie se non sarà alta fino a una certa altezza. E così, Lola, che prende sul serio questa sfida inizia ad allenarsi per crescere, sempre più arrabbiata ma decisa.

"Mi allungo, mi allungo mi allungo..." (questo pezzo si presta a una "lettura dinamica").
Tuttti dicono sempre che per crescere bisogna mangiare e allora Lola chiede il bis del piatto di minestra! Perché "Si sa che la minestra fa diventare alti come un grattacielo."
Poi si inventa la "danza del chewing gum". Con Andrea ci siamo chiesti come sarà. Sarebbe bello scoprire la propria danza: Io e lui ci siamo chiesti come funziona e Andrea mi ha risposto che... forse ci si gonfia come una palloncino. Ci si gonfia e ci si sgonfia allungandosi e restringendosi? Boh, sarebbe bello chiederlo agli autori!" Qui la creatività è messa in moto all'ennesima potenza!
Quando è ora di andare dal dottore Lola non solo mostra tutto il suo coraggio (un bel suggerimento per chi deve affrontare questa prova...) ma è ansiosa di sapere quanto è cresciuta. Perché potrà fare le cose che vuole, proprio come i grandi.

E così va a fare ginnastica con la mamma. Ma non è proprio così semplice come pensava, è faticoso e si stufa. Sì, perché è ancora piccola...

Ma la mamma sa come consolarla e sa emozionarla con le parole giuste perché ha apprezzato i suoi sforzi. E glielo dimostra con tanti bacini. Ecco un brano commuovente, in cui la piccola chiede se i baci fanno crescere come la minestra.
Che momento di relazione si può creare leggendo insieme con il proprio bambino questo libro! Quando ho chiesto ad Andrea se i miei bacini lo facevano crescere, lui si è alzato subito in piedi sul letto, mostrandomi la potenza dei baci della mamma. Che momento unico!

Lola continua a cercare tutte le strategie per diventare grandi. Come? Attraverso il gioco, perché quando i bambini giocano sono "al lavoro". Imparano e sperimentano, e al tempo stesso, si divertono.
Questa scena mi fa tanto venire in mente gli angoli del travestimento che ci sono al nido e alla scuola dell'infanzia. E mi fa tornare bambina, quando anch'io mi divertivo a infilare le scarpe della mamma o truccarmi come lei. "Si è infilata le scappe della mamma per sembrare più gande" ha commentato il mio piccolo lettore."
Però la sera Lola è preoccupata. Quando si sta in ascolto di noi stessi, arrivano anche i pensieri, e il buio e la solitudine nei piccoli fanno sorgere i brutti pensieri. Essendo una cricetina sveglia sa che non bastano due giorni per crescere e non sa come vincere la sfida.
Il giorno dopo prova a battere Luca con l'astuzia ma il bulletto ha la meglio su di lei... Lola perde le biglie, si dispera.
Ma alla fine troverà un modo per ritrovare non solo l'allegria ma anche per dare una piccola grande lezione a Luca. Leggere per credere.
Alla fine della lettura, Andrea emozionato ha esclamato subito "Bellissimo! Pozzo pottarlo a scuola?"
Questo albo poetico e divertente, con illustrazioni leggere e dolcissime, come ho già scritto si presta molto bene a una lettura creativa, fantasiosa ed è perfetto per facilitare la relazione con il proprio bambino.

"Dolci parole" e "Scatole di felicità"
Lola è la protagonista di altri due bellissimi albi, "Dolci parole" e "Scatole di felicità", che si prestano non solo alla lettura e alla riflessione su temi "delicati" e preziosi, ma anche a liberare la fantasia per creare laboratori fantastici (io ho usato il primo albo, di cui ho fatto una piccola presentazione, proprio alla Libreria Librambini di Vimodrone e ne ho parlato qui).
A pensare che "Le scatole di felicità" sia un libro speciale, non sono solo io. Per esempio, la Libreria di Pescara (che ha un nome bellissimo!!!) "Nel paese dei Libri Selvaggi" ha stilato un elenco dei 30 libri migliori del 2015, raccontando che si tratta di "Un piccolo albo, da leggere dai 4 anni, per parlare ai piccolini di emozioni, per aiutarli a riconoscerle, comprenderle, comunicarle. La piccola Lola come regalo ha voluto due scatole, una grande e una piccola per riporre le piccole felicità e le grandi felicità! Ma il fratellino e i suoi amichetti la prendono in giro… Lola non si arrende anche se il comportamento del fratellino la mette in difficoltà: per fortuna arriverà una piccola scatola di scuse." Qui trovate il link con la classifica con tanti suggerimenti di albi di qualità.

Chi sono gli autori. E un video da non perdere
Due note sugli autori. Claude K. Dubois è nata in Belgio e insegna disegno dal vero a Liegi. Carl Norac, anche lui belga, è professore di francese, poeta, grande viaggiatore e ha vinto numerosi premi letterari. Qui trovate un video - in francese - prodotto da L'École de Loisirs (casa editrice francesce molto nota), in cui i due si raccontano e spiegano come è nata la storia di Lola e di "Dolci parole". Claude racconta che Carl si è rivolto a lei perché è molto "dolce", mentre lui spiega che è rimasto colpito da una bambina molto timida che non riusciva ad esprimersi.
Le aveva dentro di lei e sembravano gonfiarsi nel suo petto senza esplicitarsi.
Nel video Carl racconta anche di aver incontrato un illustratore che diceva che, essendo lui un poeta, non sarebbbe riuscito a trovare le parole giuste per un pubblico di piccolissimi (quanto si sbagliava!). Questa riflessione lo ha aiutato a creare la storia (questo dimostra che anche le critiche possono mettere in moto qualcosa di straordinario, se sappiamo coglierne il lato positivo).

Claude dice che questa piccola eroina all'inzio doveva essere una bambina. Ma con gli animali si può osare di più, esprimersi in maniera più forte. Si può "giocare molto" con le sue emozioni. Ecco perché la bimba è diventata una cricetina.

Nel video potete vedere come l'illustratrice disegna, con una carta molto morbida, accanto alla sua scatola di acquarelli "consumati".

lunedì 18 gennaio 2016

"La mia invenzione" e "Io sono Marcello Fringuello" : due albi sul silenzio



Il silenzio e l'ascolto sono due temi sui quali sto riflettendo da diverso tempo e con cui, spesso, mi trovo in conflitto. Trovare quindi due albi, molto diversi fra loro, che mi consentono di approfondire e aprire nuovi orizzonti risulta per la sottoscritta "una manna" dal Cielo.

La mia invenzione
Devo ammettere che ho in mano "La mia invenzione" con tanto di dedica di Silvia Vecchini, magistralmente illustrato da Maria Girón, (Edizioni Corsare), dalla Fiera del libro di Bologna (con dedica personale - di solito la faccio fare per i miei bambini - che conservo con gelosia), ma non ho avuto mai occasione di parlarne. Forse, appunto per il tema che al tempo stesso mi affascina e mi spaventa, visto che ho sempre associato il silenzio a momenti bui della mia vita e non, come insegna lo yoga, a "infinite possibilità". Silvia Vecchini, riesce sempre negli albi, essendo anche poetessa, a concentrare in poche frasi concetti molto densi e profondi. L'autrice ci suggerisce, attraverso una serie di indizi, qual è la sua invenzione (i miei bimbi, "chiacchieroni" per natura come la loro mamma, hanno pensato che stesse parlando della creatività). Ci rammenta anche degli stati d'animo e di comportamento per "trovarla".

Ci spiega che è comoda, perché "ti può seguire dappertutto: in auto ad esempio produce pensieri molto interessanti" e qual è la sua utilità...


Due pensieri che sento miei sono questi, su cui la scrittrice ci manda un monito sono questi "l'invenzione misura anche quanto sei arrabbiato ed è pericolosa perché se hai il cuore duro può sfuggirti di mano e diventare un muro"

e "Ha un difetto se è buio, dentro o fuori, fa paura".

In effetti, questo non capita solo ai bambini, quando mettono il broncio e si allontanano, ma anche quando le persone non stanno bene. Per esempio, succede in una stato depressivo, quando uno implode e racchiude dentro di sé pensieri tristi e cupi che, appunto, induriscono il cuore e fanno vedere tutto nero. E hai paura, di te stesso e del mondo che ti circonda.
La seconda espressione, non solo si rifà ai bambini piccoli, che attraversano un periodo di vera e propria paura del buio, ma anche quando, magari, ci si trova soli in un posto sperduto o poco conosciuto e si ha paura, per esempio, che qualcuno possa entrare in casa. Per cui si fa particolarmente caso al silenzio, o ai rumori che vengono accentuati, appunto, nel silenzio (tranne quelli di civette o ranocchie, nel mio caso, che anzi mi mettono allegria).




Trovo bellissima questa pagina perché quando ti trovi immerso nella neve, tutto è ammantato e tutto si trasforma. C'è una magia che accade. Una poesia che ci regala la natura. Mi è capitato di provarlo in tutta la sua intimitàa quando avevo iniziato una tesi - poi lasciata - sul lupo e mi sono ritrovata nei Boschi del Casentino, da sola, in mezzo alla neve a seguire le tracce fresche del predatore. Le montagne, la neve, le tracce fresche e la sottoscritta. Emozione allo stato puro. In un silenzio assoluto.

E' anche vero che questa invenzione precede momenti speciali, momenti che richiedono un ascolto da parte dell'altro, una relazione intensa che si instaura tra due persone (chi ha provato quanto sia bello al buio raccontarsi i segreti o momenti della giornata speciali con i propri bambini? Questo incantesimo accade talvolta ed è così prezioso da esserne grati).


Questa tavola mi ricorda molto i miei bimbi in tanti momenti della giornata, specie a tavola (quando noi grandi desidereremmo tanto che l'invenzione di Silvia Vecchini si realizzasse, come dice più avanti rammentandoci che "più spesso i grandi la scacciano come una mosca"). Andrea poi, quando succede, "ha gli occhi che ridono", ed esprimono tutta la sua vivacità e gioia).


Altre recensioni
Non posso che consigliare questo bellissimo albo e invitarvi a leggere la recensione che ne ha dato sul suo blog la pedagogista Francesca Romana Grasso, che invita a riflettere sul valore del silenzio (qui), consigliando diversi approcci con spunti di approfondimento di alto interesse. In particolare mi soffermo su due sue frasi particolarmente significative "Nel silenzio corpo, mente, spirito, si incontrano e sperimentano nuove vie di equilibrio; il corpo riposa, la mente si riequilibria attraverso un lavoro di riorganizzazione, lo spirito si apre come una doppia pagina bianca." e "Il silenzio è frutto di un percorso attivo, molto complesso e personale."

Inoltre, quella di Gigi, il giornale dei giovani lettori (qui), che suggerisce come leggere l'albo con i vostri bambini "Provate a sfogliare il libro con i bambini, quelli dai 4 anni in su ma ancor meglio chi ne ha 6 o 7, misurate ogni parola e le pause fra una frase e l’altra, accomodatevi quieti nel tempo che ci vuole per voltare le pagine e osservarle con attenzione, dosate l’aspettativa e la curiosità."

Infine, quella di Marina Petruzio su Luuk Magazine (qui) che, con grande maestria e sapienza di parole, sa raccontare l'albo invitandoci a sfogliarlo, da cui attingo una frase che mi ha colpito, tra le tante "È una casa dai colori caldi, quella nella quale entriamo aprendo l’albo, accogliente come il cuore sul quale ci si appoggia per sentirlo battere e con lui calmarsi. Morbidi tappeti ed ospitali pavimenti di legno, carta da parati allegramente decorata e muri dai colori rotondi, ampie finestre per ospitare giochi di luce ed ombra. Frammenti di vita, giochi in attesa di essere coinvolti nuovamente, tre pupazzi in pezza che se la raccontano..."
Altre recensioni interessanti: Biblioragazzi (qui), dove Caterina Ramonda esplicita perfettamente uno dei pensieri che ho espresso brevemente "Inutile dire che, tra le tante, una delle illustrazioni è davvero perfetta a rendere il silenzio ovattato che la natura ti restituisce quando si copre di bianco e nasconde tutto, quando ti dice che intorno ci sono animali, persone, bulbi, pensieri, ma intanto tutto è perfettamente silente: la bambina se ne sta a naso in su, in campo bianco, a sentire sul viso, sugli occhi, sul naso i fiocchi di neve che cadono e carezzano. Ecco, la neve è la consistenza lieve del silenzio."; Lettura Candita  dove Carla Ghisalberti ci fa riflettere che "Il silenzio, come la noia, non è merce dei nostri giorni. Si scappa dal silenzio perché ci mette a nudo, perché ci costringe a fare i conti con noi stessi. È meglio alzare i toni, cercando di dimostrare al mondo che si è vitali, piuttosto che mostrarsi taciturni, quando non si ha niente da dire." E racconta molto altro che vi invito a leggere direttamente (qui).

Naturalmente vi consiglio anche a spulciare il blog di Silvia Vecchini - già il nome è evocativo "La parola magica" - dove racconta sia la genesi del libro, nato da un incontro in una classe in cui si trattava il tema a partire da un brano di Tiziano Terzani (qui), sia racconta non solo bellissimi aneddoti famigliari sia il suo rapporto con il silenzio (qui). Vi segnalo, inoltre, che l'autrice va in giro per biblioteche e scuole (e ovunque sia invitata) a portare un bellissimo laboratorio sul silenzio a cui spero prima o poi di partecipare insieme ai miei bambini (il sogno sarebbe di portarlo a Milano, chissà se ci riuscirò!). Gli interessati possono dunque scriverle per avere maggiori informazioni, ma già sul blog vi fate un'idea di com'è.


IO SONO Marcello Fringuello
L'albo "Io sono Marcello Fringuello" di Alexis Deacon con illustrazioni di Viviane Schwartz (LO/Officina Libraria) parte da un'idea geniale "I fringuelli vivevano in un grande stormo. Facevano un tale fracasso tutto il giorno che davvero non potevi sentirti pensare" (avete presente gli stormi degli storni quando arrivano in città?). Dunque frastuono, rumore che impedisce di pensare, ragionare.

La routine e le convenzioni sociali di buona educazione sono tali da non lasciare spazio al sé. Questa  - monotona - routine viene a volte spezzata dall'arrivo de La Bestia (non un predatore qualsiasi, ma quel predatore che fa razzia tra i fringuelli e li spaventa a morte facendoli scappare a "gambe levate").


La routine continua. Finché, una notte, avviene la trasformazione, grazie al buio e al silenzio.
Marcello (il protagonista) ha "avuto un pensiero e l'aveva sentito". Quindi, per ascoltarsi, occorre il silenzio. Un pensiero mica da poco. Un pensiero "cartesiano" (Cogito, ergo sum).
Prima pensa chi è, poi intuisce di pensare. E rimane ad ascoltare i pensieri che fluiscono dentro di lui, come un fiume in piena.


Un pensiero in particolare colpisce Marcello: l'idea di poter uccidere/abbattere/sconfiggere La Bestia.
E quando La Bestia arriva questo pensiero ritorna e Marcello si comporta - sembrerebbe - da eroe. La sfida e con tutte le energie si lancia verso di lei. Peccato che La Bestia abbia la bocca aperta.
Oh oh. Che cosa ho fatto?


I pensieri continuano a fluire ma non sono affatto piacevoli. Perché l'uccello ha la consapevolezza dell'atto "stupido" che ha fatto. E' finito tra le fauci de La Bestia e ora si trova al buio, solo, con i suoi pensieri angoscianti, presagio di morte sicura.

Ma il fatto di essere sempre in silenzio e di pensare aiuta il ragionamento, lo espande, lo fa crescere. Perché pensa anche a tutte le relazioni tra La Bestia e le sue prede (una tavola stupenda, che sembra una specie di labirinto in cui perdersi per ore a cercare dettagli e collegamenti insieme ai bambini).

Dopodiché Marcello resta in silenzio e ascolta i rumori della bestia (e qui il divertimento con i più piccoli è assicurato tra un "crunch" e un "munch", un "grumble" e un "gurgle").  Il silenzio permette di ascoltare l'altro (anche se in un modo un po' "bizzarro" e "inconsueto" perché l'uccellino si trova nell'apparato digerente della bestia insieme a un topo e a un serpente che sembrano terrorizzati e al punto tale da non capire nulla (avete mai provato la stessa sensazione quando qualcosa vi fa andare in tilt e non ragionate più?)
A differenza delle altre prede Marcello capisce di poter ascoltare i pensieri della bestia, che sono, le sue necessità (mangiare, cacciare, sfamare i piccoli...).


E così inizia un dialogo esilarante tra Marcello e La Bestia - accentuato da una trovata originale a livello di illustrazione - che riesce a farla riflettere su come le sue prede abbiano famiglia e a  convincerla non solo della necessità di cambiare dieta ma anche di tenere aperta la bocca... pronti...via!!!
Il finale di Marcello il Fringuello è poi bellissimo e poetico. Ma lascio a voi leggerlo.


Le illustrazioni, semplici ed essenziali, sono altrettanto interessanti perché i fringuelli sono disegnati a partire da impronte digitali (anche se già viste nell'albo "Trixtie ten" di Sara Massini per Valentina Edizioni), che vengono ingrandite o rimpicciolite grazie al digitale a seconda dello scopo e completate con brevi tratti di pennarello/pennello nero, usando anche le espressioni e le convenzioni tipiche del fumetto. Solo La Bestia è diversa. Infatti per lei è impiegato un tratto acquarellato contornato da una matita spessa.

La lettura ad alta voce viene favorita dall'uso della font Helvetica Neue, che viene usata con corpo grande o piccolo per dare risalto alle scene o a un particolare momento che viene "urlato" (è interessante come anche i bambini in età prescolare se ne accorgano, mentre quelli già abituati a scrivere ne colgano le sfumature, come, ad esempio l'uso del punto esclamativo - sarà forse perché Marco sta studiando la punteggiatura?) .

Di Viviane Schwarz ho già parlato qui, raccontando altri due libri veramente esilaranti e singolari.

In questo caso vi consiglio di leggere anche la recensione di Francesca Tamberlani, su Milkbook, che trovate qui, sempre nel caso che non l'abbiate già fatto! Anche lei lo reputa un capolavoro. E se trovate molta sintonia in quello che c'è scritto, vi giuro che ho letto la recensione (anche se ne conoscevo l'esistenza quando l'ha fatta un anno or sono) dopo, per non esserne influenzata. Ma evidentemente ha suscitato lo stesso entusiasmo e le stesse emozioni.